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Self-publishing: la regola dello “show don’t tell”

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la regola dello show don’t tell

Ormai è chiaro, lo ripeto all’infinito: prima di passare alla fase “pubblicazione” e alla successiva fase di autopromozione, ciò che va fatto è dar vita a un prodotto editoriale degno di questo nome.

Per farlo, bisogna lavorare molto per trovare il proprio stile di scrittura, per correggere eventuali errori che ci portiamo dietro da anni e, non solo nel caso di romanzi e racconti, per affinare le proprie tecniche di narrazione.

Come ho spiegato nel post dedicato allo storytelling, infatti, saper raccontare una storia è fondamentale, qualsiasi cosa si intenda scrivere. Questo perché siamo terribilmente affascinati dal mondo del “se fosse”, dall’universo della narrazione.

Quindi, perché non utilizzare questa tecnica anche per insegnare ciò che si conosce o far passare le nozioni tecniche che hai appena inserito nel tuo ultimo manuale?

Ma raccontare storie non è così semplice come potrebbe sembrare.

Non sto parlando di sederci sulla riva di un fiume con gli amici più stretti e raccontare loro dell’ultima volta che siamo entrati nella casa abbandonata vicino alla collina e dello spavento che abbiamo preso nel vedere il fantasma della vecchia proprietaria strizzarci l’occhio.

Sto parlando di qualcosa di più complesso e professionale. Sto parlando di entrare nella mente dei tuoi lettori e dipingervi all’interno l’immagine che vuoi tu.

Di tecniche per farlo ce ne sono molte. Oggi te ne illustrerò una che potrai riutilizzare sia nei tuoi libri, sia nei post che scriverai sul tuo blog, sia nei tuoi messaggi pubblicitari. Parlo della cosiddetta tecnica dello “show, don’t tell”.

Gli anglosassoni la chiamano così, noi potremmo dire “mostralo, non dirlo”. Ma cosa significa?

In pratica vuol dire che, per rendere un’immagine, una scena o un concetto più potente, per far sì che questo colpisca davvero l’attenzione del lettore, bisogna evitare di palesarlo. Mi spiego meglio. E lo faccio con due esempi:

es #1: Marco era una tipo scorbutico che non amava stare in mezzo alla gente.

es #2: Non appena gli altri arrivarono al bar, Marco sbuffò e lasciò il suo posto per chiudersi in bagno.

Ciò che volevo far passare, ovviamente, è il brutto carattere di Marco. Nell’esempio #1 te l’ho detto chiaro e tondo, mentre nell’esempio #2 te l’ho fatto capire. Quale dei due è stato più efficace, secondo te?

Chiaro che sia stato il secondo. Ma perché? Perché ti rendo un lettore attivo. Non sto lì a guidarti come una maestrina petulante, dicendoti per filo e per segno come stanno le cose e lasciandoti inerte ad ascoltarmi (o leggermi).

Al contrario, ti rendo partecipe della storia. Ti mostro ciò che Marco fa, in modo tale che la tua mente sia costretta a ragionarci su e a fare il resto del lavoro per giungere alla conclusione che Marco è un tipo scorbutico e solitario.

Il fatto stesso di averti messo davanti a un esempio è “show, don’t tell”. Avrei potuto benissimo astenermi dallo spiegarti cosa volessero significare quei due esempi e lasciare che la tua mente facesse 2+2. Giusto? Avresti capito lo stesso.

Questa tecnica, se usata bene, è in grado di trascinare il lettore all’interno del tuo mondo fantastico e fargli dimenticare che si tratta solo di una storia (ciò che Samuel Taylor Coleridge definì “sospensione dell’incredulità”, già nel 1817).

Non è bellissimo?

Come ti dicevo prima, tutto ciò può essere utilizzato in romanzi e racconti, d’accordo, ma anche nei post del tuo blog e nei tuoi messaggi pubblicitari.

Tanto per capirci, e per chiudere mostrando (non dicendo), ti lascio un piccolo compito: accendi la TV, oppure vai su Youtube, ricerca un po’ di pubblicità e prova a scovare in ognuna di loro lo “show, don’t tell” che la rende unica.

Io, intanto, ti do appuntamento alla prossima… occhio alla penna!

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